GENERALI IN CONTROLUCE - parte 3

Dall'ignoranza all'incompetenza

Studiosi come B.H Liddell Hart, Correlli Barnett, John Keegan, Bevin Alexandere. in misura minore,William L. Shirer, annettono il maggior rilievo al ruolo umano, inteso come qualità di guida e conduzione, nel quadro degli avvenimenti della seconda guerra mondiale. Liddell Hart, inoltre, non sottovaluta le componenti tecnologiche e il loro ruolo , mentre Shirer, da buon giornalista- di stampo americano - insiste sulle sfumature personali e particolarmente sul tragico profilo dei maggiori esponenti del nazismo, ma la sua non è una< storia> della seconda guerra mondiale. Forse neppure una requisitoria, ma solo una elencazione, quasi compiaciuta, di brutalità e barbarie, secondo i canoni ortodossi della mentalità statunitense, tuttora imbottita di puritanesimo a senso unico. Infatti il titolo (versione italiana) lo conferma: “Gli anni dell’incubo” , nella versione originale “20th Century ,vol. II: The Nightmare Years”.
E le due bombe atomiche sul Giappone?
Una ricerca ampia, approfondita, il più possibile asettica, di quegli anni (1935-1945) consente, anche e non solo, di accertare che moltissimo, se non tutto, dipese, nel divenire delle vicende belliche, dalle componenti tecniche e scientifiche resisi concreto in quel decennio, anche se risalenti, nei precedenti dottrinari e teorici, a periodi antecedenti.
Non si tratta, qui, ad esempio, di ricostruire la gestazione sfociata nel Radar, nella missilistica, nella scissione dell’atomo, negli aviogetti, nei siluri acustici, nei miglioramenti dell’efficacia delle munizioni e via dicendo, si tratta solo di prendere atto di quanto effettivamente accadde in una fase apparentemente estranea al divenire politico a livello internazionale, sfociato poi nel turbine orrendo di una guerra feroce, durante la quale le soluzioni e decisero e ipotecarono, come ipotecano tuttora, le sorti dell’umanità.
La ricerca si è imbattuta, fatalmente, in quanto scevra da ogni sentimentalismo e da ogni rimpianto, in una serie di situazioni oggettive nel cui ambito si scontrarono, si ignorarono o, peggio, si manipolarono e si mistificarono realtà scientifiche e tecniche (non meno che industriali) straordinarie che fecero pendere il piatto della bilancia in un senso piuttosto che in un altro in forza, o in virtù, non di intuizioni, genialità, capacità o coraggio, ma di ottusità alimentata da limiti intellettuali penosi.
L’atmosfera non era quella affiorata o emersa, in seguito, dopoguerra, codificata e analizzata negli studi del vice ammiraglio Friedrich Oskar Ruge, cioè a dire la “Strategia Globale”. L’atmosfera era quella declinante di un mondo in agonia dottrinaria e scientifica, e preludio dell’aurora di un ciclo tecnologico scientifico tuttora in essere e, non ancora analizzato e studiato adeguatamente, nelle sue enormi e incommensurabili conseguenze e prospettive.

Come in ogni ricerca e analisi, è indispensabile suddividere il lavoro in tante parti quante sono le dimensioni che si intendono perlustrare. Nel caso specifico la dimensione è una, e una soltanto, quella italiana e non per motivi particolari, ma solo perché, per quanto si sia ricercato, nulla si è trovato, neppure in una nota a margine o a piè di pagina, che in qualche modo lasci , o lasciasse,intuire quale fosse il possibile panorama intuito e tratteggiato in merito alle potenzialità realizzative e applicative della scienza e della tecnologia, quasi lo scenario fosse vuoto, disabitato, miserabile e meschino, persino ridicolo nella sua penosa, tronfia, arroganza.
Lo scenario richiede una rapida messa a fuoco onde non tradire l’obiettivo.
Non vi è bisogno di dimostrazioni e tanto meno di spiegazioni per quanto attiene alla premessa di qualsivoglia operazione per conseguire un obiettivo: una analisi o, meglio, un apprezzamento
estremamente approfondito e corretto, del quadro strategico entro cui muovere e agire e l’individuazione di quanto necessario e utile per ottenere l’esito voluto.
Preliminarmente è indispensabile disporre delle informazioni concernenti la consistenza dell’avversario, di quanto esso dispone e della qualità di tale consistenza.

Squallidi e penosi personaggi

Ai massimi livelli politici e militari italiani negli anni ’30 del XX secolo, non si ebbero personaggi di vaglia,ma solo ed esclusivamente mezze figure, arrampicatori sociali, privi di dignità e di autocritica, carrieristi squallidi, lacchè, servi sciocchi, ricchissimi di incompetenza e di boria.
Non si ebbe, contrariamente a quanto sarebbe stato indispensabile, gente capace di riflettere, di analizzare di studiare e di trarre, in linea di massima, le opportune conclusioni circa il disponibile, il recuperabile, il realizzabile e l’indispensabile: tessere da inserire nel quadro dello scenario strategico entro cui era immersa l’Italia.
Applicando, nella ricerca, spirito di collaborazione e utilizzo razionale e produttivo delle potenzialità e delle risorse.
Con una premessa: uno studio approfondito sui seguenti punti: a) quadro strategico; b) Tipologia di mezzi indispensabili e obiettivi di teatro; c) formazione di comandi tattici ad hoc; d)Servizio informazioni adeguato.
In questo ordine si sarebbe dovuto procedere nel costruire il dispositivo industriale-economico-militare, invece…
Sospetti, diffidenze, gelosie, ambiguità, delazioni, cupidigia,imboscate, inganni, trabocchetti saturavano l’ambiente e costellavano, unitamente alle trappole e alle tagliole, il terreno ove agivano i cosiddetti, presunti, cui era stata demandata (ahinoi!!) la preparazione e l’organizzazione.
Risulta chiaro che la classificazione sopra delineata potrebbe essere diversamente espressa e altrettanto integrata da paragrafi e schede analitiche, ma pur rimanendo così elencata rappresenta il minimo essenziale di una linea strategica appena accettabile, senza incunearsi in disquisizioni teoriche e operative dettagliate.
a) Quadro strategico – Non vi era alcuna sintonia tra il potere politico e quello militare. Il capo del governo (Mussolini) e il numero uno delle Forze Armate (Pietro Badoglio) erano divisi su tutto, in particolare sulla questione della stima e dell’intento.
b) Badoglio un prossimo eventuale conflitto combattuto sulle Alpi, mentre Mussolini spaziava nel Mediterraneo e oltre. Il primo, in sostanza, ripercorreva i del-
la Grande Guerra, mentre il secondo, proiettava il pensiero e l’immaginazione in una dimensione aeronavale non meglio definita e soprattutto inadeguatamente configurata quanto a proiezione e struttura indispensabile.
Per quanto si riferisce agli obiettivi, sarà sufficiente la sola elencazione di quelli principali: Malta (occupazione immediata allo scoccare della dichiarazione di guerra), Canale di Suez, sabotaggio con navi mercantili e con mine aviolanciate; Tunisia, occupazione rapida.
Indispensabile, prioritariamente, l’elaborazione di piani, addestramento ad hoc di truppe speciali, disponibilità di aerosiluranti, e di bombe a caduta verticale di opportuno peso e armamento e non di semplici petardi da 15 chilogrammi, nonché di stormi di bombardieri addestrati nelle operazioni antinave e segnatamente nel bombardamento in quota e a tuffo.
Da non dimenticare le esperienze della Grande Guerra con i trimotori Caproni, purtroppo accantonate e sostanzialmente dimenticate nel ventennio 1919-1939.
c) Completamente diversificati gli orizzonti e le metodiche, e, ancora prima, le concezioni e i criteri. Guerra di trincee per Badoglio, operazioni a largo respiro per il capo del governo, privo, tuttavia di profondità di pensiero quanto al livello degli uomini cui attribuire il compito di guida strategica e indirizzo tattico. Assenza di un servizio informazioni all’altezza del compito e capace di percepire il respiro globale dell’impegno. Il tutto, purtroppo, ristretto in una dimensione limitata e goffa, miseramente provinciale, inquinata da presunzione, sovra valutazione e boria infinita.
d) Quella dei mezzi, poi era la lacuna entro cui affogarono le aspettative e la presunzione colossale di troppi gallonati asserragliati nei vertici degli Stati Maggiori, poveri di conoscenze effettive e privi della preparazione elementare indispensabile per rendersi conto di che panni si dovessero indossare per essere all’altezza di battersi con l’impero britannico che da secoli basava il suo potere su due elementi essenziali e irrinunciabili: il potere marittimo e la percezione tempestiva e estremamente assimilata dell’impiego aereo come arma navale di primo rango. Sul teatro terrestre, inoltre, il supporto del mezzo  blindato e di quello corazzato non come semplice supporto alla fanteria appiedata, ma il criterio di meccanizzare la fanteria e il motorizzare l’artiglieria, attribuendo alla velocità di movimento e di manovra il moltiplicatore del fuoco e della penetrazione in profondità nello schieramento statico dell’avversario.
e) dell’azione dipendeva dal combinato “mezzi ruotati e cingolati e comando tattico”, da cui discendevano un addestramento e una preparazione opportuna di comandi a livello compagnia/ battaglione/ reggimento/Divisione/Corpo d’Armata con la conseguente preparazione della truppa, l’armamento opportuno e la funzionalità del supporto logistico adeguato.
f) Si trattava, in definitiva di un profondo mutamento non solo delle concezioni operative, ma di un totale cambiamento della mentalità, del ruolo e della fisionomia del Soldato. Innovazione assente nel Regio Esercito, salve fatte alcune notevoli, ma isolate eccezioni che ben si distinsero, imponendosi al rispetto dell’avversario e dell’alleato, ma che si rivelarono insufficienti per poter mutare le sorti delle operazioni. 

Il potere aeronavale

Qualsivoglia comando di qualche spessore, era a conoscenza di quali fossero le situazioni complessive e gli orientamenti in questo comparto militare a livello internazionale e quale, ancora prima, il potenziale già disponibile e in linea. Sottovalutare simile componente equivaleva a voler combattere con le armi scariche o caricate a salve.
L’analisi asettica delle condizioni oggettive italiane, evidenziava l’esigenza di rifornire adeguatamente la cosiddetta (Tripolitania e Cirenaica) e dotare l’Impero di adeguate scorte onde consentire una autonomia operativa conforme al ruolo e all’entità delle minacce incombenti, senza sottovalutare il possibile ruolo strategico del nostro possedimento e le sue potenzialità in termini essenzialmente strategici e subito dopo politici e tattici.
Argomento quest’ultimo disgraziatamente negletto. (Uno dei tanti, troppi!!).
In precedenza si è trattato, sia pure schematicamente, di velivoli, aerosiluranti, unità di superficie. Ora è il momento di accennare ai carri armati e alle logiche correlate questioni dell’impiego.
Come quasi sempre accade nelle vicende tecniche (si verificò con particolare accanimento- come riferito - in merito al ruolo degli aerosiluranti), il preludio ha i contorni di un letterario.
Il carro armato non fece differenza oppure, se si preferisce, confermò la regola: lo Stato Maggiore aveva ispirato la realizzazione di un critico sul mezzo corazzato. Si era nel 1927. Strano.  Il fu scritto e pubblicato sotto l’anonimo patrocinio dello Stato Maggiore, proprio nell’anno in cui il capo del governo, Mussolini, aveva comunicato, ai vertici delle Forze Armate, che un conflitto generale in Europa era da considerarsi inevitabile e non a lungo termine.
Interessante sottolineare che il esprimeva giudizi durissimi sulle “prospettive dei mezzi corazzati in Italia”.  Una sorta di scomunica!
Era una critica feroce, senza alibi di sorta, della decisione del generale francese Mangin che in una fase drammatica della guerra contro l’Impero teutonico (1918), aveva lanciato con disperazione un contrattacco con quattro divisioni di fanteria, dotate anche di alcune, senza la preventiva, usuale, ortodossa azione dell’artiglieria, nel tentativo, riuscito, di sfruttare la sorpresa e bloccare così l’impetuosa, travolgente avanzata dei prussiani,rivoluzionando i canoni ortodossi della guerra, sino ad allora intangibili.
Gli ostacoli frapposti al cammino dei carri armati, ebbero altre fasi estremamente critiche.
Una decisione perentoria: all’esercito italiano si attribuiva, al più, l’impiego dei carri leggeri, da 3,5 tonnellate, armati con due mitragliatrici. Null’altro.
Il capo di Stato Maggiore Generale, maresciallo Pietro Badoglio, aveva sentenziato nel corso di una riunione al massimo vertice militare, che prevedeva una possibile azione nemica con l’impiego di carri, da ovest, esattamente dall’area dell’oasi di Siwa. Più oltre, ebbe e sentenziare, verso Est, i mezzi corazzati non hanno copertura alcuna e un’aviazione che si rispetti li deve maciullare. Illusioni, ovviamente.  Le affermazioni di Badoglio caddero in un vuoto pneumatico. Infatti, il capo di Stato Maggiore della Regia Aeronautica e Sottosegretario di Stato, generale Pricolo, presente alla riunione, rimase muto: si guardò bene dall’obiettare che l’aeronautica non disponeva di velivoli e munizionamento progettati, concepiti, addestrati negli attacchi al suolo e tanto meno di piloti preparati ad una simile azione. Cosicché andammo in guerra con i piccoli cingolati da 3,5 tonnellate dotati di due mitragliatrici inefficaci oltre i 400 metri,massima gittata delle due armi, e addirittura ridicoli a fronte dei carri del nemico. I Britannici, infatti, disponevano, inizialmente, di:
Carri tipo A.9 e Tipo A.10
Tipo A.9- 12,7 tonnellate; armati con un pezzo da 40/53 in torretta, velocità 37 Km/h autonomia 240 Km.
Tipo A.10- 14,5 tonnellate, un pezzo da 40/53, velocità 25Km/h autonomia 160 Km.
I Britannici disponevano, inoltre, del carro pesante da Fanteria Mk.A.12 Matilda;
Peso: 26 tonnellate, armamento un canone da 40/53, corazza anteriore 75 mm, velocità 24 Km/h, autonomia su strada Km 250. La corazza era imperforabile per i cannoni controcarri dell’epoca. Su terreno v ario la velocità scendeva a circa 10 Km/h.
Inoltre , l’arsenale corazzato comprendeva:
Cruiser tipo A:13:
peso 15 tonnellate, armamento il classico pezzo da 40/53, corazza anteriore 30 mm. Velocità 50 Km/h , autonomia 140 Km.


Dopo il una seconda per i mezzi corazzati si rivelò quella del possibile acquisto di mezzi esteri: ci si riferisce a quello che, acquisito dai Tedeschi, fu classificato PzKpfwv 38 “T”- tonnellate 18,5, equipaggio 5 uomini protezione 12-20 mm, velocità massima su strada 47 Km/h , autonomia 290 Km su strada, 165 su terreno vario, armamento un cannone da 40 mm , velocità iniziale del proietto 810 m/sec. perforazione 36 mm a 500 metri, inclinazione 60 gradi, a 1000 metri 30 mm a 60 gradi, e due mitragliatrici calibro7,92,una ricetrasmittente. Produzione cecoslovacca. Ne furono costruiti 1168 esemplari sino al 1942.  Il carro nel 1940, campagna di Francia, equipaggiava i battaglioni della 7^ Panzerdivision di Rommel e dell’8^ Panzer, protagoniste dello sfondamento e della corsa fino a Dunkerque.
Caratteristica saliente dell’argomento: il carro cecoslovacco era disponi bile subito mentre il cosiddetto motore maggiorato Fiat per il carro armato Fiat/ Ansaldo M.13, avrebbe richiesto almeno ulteriori otto mesi e non avrebbe fornito al carro la velocità del carro Skoda, 47 Km/h. Il carro cecoslovacco fu (???). Il mezzo, inoltre, si prestava all’immediata installazione di un pezzo da 75 mm. Il che, ad esempio, fu fatto dagli ungheresi.
“Tragici buffoni”, li definì il Conte, Tenente Colonnello, Paolo Caccia Dominioni di Sillavengo (Comandante del 31^ Guastatori a el Alamein), in un colloquio, a Gorizia,(nella palazzina comando del vecchio aeroporto, con a pochi metri il filo spinato del nuovo confine orientale, dominato cupamente dalle torrette armate degli slavi di Tito) anni or sono, con l’autore delle presenti note, riferendosi ai massimi responsabili dell’Esercito, relativamente , tra il molto altro, alla decisione di non adottare il carro Skoda, pur di avvantaggiare il monopolio Fiat/Ansaldo. (per maggiori dettagli si veda “La Fabbrica della sconfitta”, Edizioni Settimo Sigillo, Roma,1979).
Nel colloqui testé ricordato, una delle esperienze più intense, professionalmente parlando, si era al cospetto della Storia,  il Conte che era accompagnato da Renato Chiodini,  suo braccio destro nel lungo lavoro condotto nel deserto di el Alamein per il recupero dei resti di combattenti di ogni nazione, lavoro culminato con la realizzazione dell’Ossario, e prima- Chiodini- combattente del 31^ Guastatori,  il “Conte Caccia” (così gradiva essere chiamato)  osservò che uno dei limiti più pesanti dell’esercito italiano nel conflitto doveva attribuirsi allo scadente livello delle artiglierie, in massima parte risalenti alla Grande Guerra, quindi con gittata povera  e insufficiente cadenza di fuoco rispetto ai pezzi impiegati dal nemico.
Per quanto poi si riferiva ai carri armati, i piccoli carri da 3,5 tonnellate armati con due mitragliatrici,  confermarono i deludenti risultati conseguiti  in  Spagna e in Abissinia, mezzi del tutto inadeguati per il combattimento. Durante l’avanzata del 1940 su Sidi el Barrani, si legge nei rapporti, di 52-57 mezzi impiegati solo 17 erano ancora efficienti.
In buona o cattiva sostanza, lo Stato Maggiore Generale e lo Stato Maggiore dell’Esercito ( tanto per fare nomi: Badoglio e, per il Regio Esercito, i generali Pariani e, in seguito, Graziani), non intesero realizzare grandi unità ( a livello di Divisioni) corazzate con carri adeguati quanto a peso, armamento, protezione e prestazioni, sottovalutando, se non addirittura ignorando, quanto avevano realizzato e stavano costantemente perfezionando e addestrando, l’esercito francese, quello britannico, la Germania e l’Unione Sovietica.
E’ opportuno segnalare che il mezzo controcarro standard era il cannone da 47 mm di concezione austriaca, che rispondeva alle seguenti caratteristiche:in servizio dal 1937; utilizzava la granata perforante del peso di Kg.1,500, con velocità iniziale di 630 m/s, celerità di tiro 12/14 colpi al minuto. La granata perforante era valida sino a 500 metri contro carri leggeri, medi e pesanti: contro carri veloci sino a 1000 metri. Il progetto risaliva agli anni 930 ed era opera dell’industria austriaca Bohler. L’Italia ne acquistò un certo numero provvedendo in seguito alla produzione su licenza.
La rapidità di evoluzione dei mezzi corazzati,il potenziamento  quanto a protezione passiva, velocità di manovra, intensità di fuoco determinò  rapidamente l’obsolescenza del cannone controcarri da 47 /32.
La superficialità dello specifico settore dello Stato Maggiore del Regio Esercito non manifestò la necessaria celerità di percezione per  quanto atteneva l’acquisizione tempestiva di mezzi contro/carri  idonei, senza tenere conto di quanto   era disponibile e non utilizzato e predisposto prima dell’entrata nel conflitto. E questo nella duplice soluzione: arma di accompagnamento e contro/carri.
Ci si riferisce ai cannoni da 90/53 e 102/35. Pezzi che meritano una sia pur rapida attenzione. Prima di affrontare nel particolare questi due tipi di armi, è opportuno soffermarsi su quali furono le che imposero i ripensamenti dello Stato Maggiore.
Africa Settentrionale, prima offensiva Britannica: 9 Dicembre 1940-7 Febbraio 1941.
Dopo la durissima sconfitta nella battaglia di Sidi el Barrani, I Britannici si spinsero sino a Bardia e la circondarono prima di attaccarla e conquistarla. Si ebbe l’intervento massiccio della  Mediterranean Fleet  e della RAF. Bardia fu bombardata dal mare nelle giornate del 17,18,19 dicembre 1940 e, ancora,  il 31 dicembre e l’1 gennaio 1941. I cannoni  anticarro si rivelarono inutili “scalfivano appena i carri inglesi” specialmente  i < Matilda>. Tuttavia gli artiglieri italiani individuarono abbastanza rapidamente i punti vulnerabili di quei colossi di 26 tonnellate con una protezione anteriore di circa 80 millimetri di acciaio.
I cingoli e la base della torretta. Nessuno dei 57 carri da fanteria< Matilda> impiegati in quella offensiva ne sopravvisse.
Inoltre, il tiro di controbatteria  italiano era inadeguato. Tremendamente scarsa, particolarmente a Tobruk, la gittata dei pezzi impiegati. I commentatori britannici affermarono nelle loro relazioni che i soldati italiani si batterono con determinazione e valore. La situazione denunciava truppe coraggiose, male armate e mal guidate .
I fatti,  in seguito- quando il comando delle truppe operative fu assegnato a Rommel, suscitando le ire rabbiose, velenose, sabotatrici dei massimi generali italiani al più elevato grado di comando In Africa Settentrionale  (Bastico e Gambara)- confermarono il giudizio.
Ciò che lascia interdetto il ricercatore ( così definibile chi si accosti alla questione partecipazione italiana alla seconda guerra mondiale, con l’intento di comprendere perché mai la storiografia ufficiale e ufficiosa affermi perentoriamente che l’Italia era impreparata, priva di risorse, di mezzi adeguati, etc,) rimane interdetto quando di fronte a una analisi sufficientemente meticolosa o viene a conoscenza di determinate informazioni e di fatti oggettivi, altrove trascurati,  ignorati  o, addirittura, manipolati  e mistificati. Fatti che smentiscono i giudizi ufficiali o ufficiosi. E’ il caso, dei cannoni disponibili e non utilizzati o utilizzati poco e male.

Tra gli altri, i citati cannoni da90/53 e 102/35, eccellenti nel ruolo contro/carri, ma impiegati tardi e in numero esiguo, pur disponendo di essi dal 1941 e addirittura, uno di essi, dal 1915!.Si è detto del cannone da 47/32, arma di accompagnamento per la fanterie e utilizzato anche come arma anti  o contro/carro, in servizio dal 1937, ma non supportato da munizionamento adeguato se non in quantità ben al di sotto del necessario e opportuno.
Un argomento, quello dei due cannoni citati, che merita uno spazio adeguato

Cannone da 90/53: costruito dall’Ansaldo, velocità iniziale del proietto 840 m/s; con questo pezzo di artiglieria si realizzarono anche auto-cannoni. La bocca da fuoco, rilevano gli esperti e gli specialisti del settore, era in assoluto la migliore del mondo, con prestazioni superiori anche al mitico 88 germanico.
Quella che qui segue è una breve del pezzo da 90/53.
Quale premessa si deve rimarcare una brevissima considerazione: nessuno, allo Stato Maggiore del Regio Esercito, ricordava che nel 1916 l’Esercito Italiano impegnato in guerra contro il potente imperial-regio esercito austro-ungarico, impiegava  gli auto- cannoni? E che il cannone utilizzato era il 102/35 di progettazione italo-francese costruito dall’Ansaldo?Nel maggio 1915  l’Ansaldo aveva costruito 90 cannoni da 102/35, risultato di un progetto congiunto Schneider / Armstrong, pezzi d’artiglieria destinati ai cacciatorpediniere della Regia Marina. Il canone venne utilizzato anche dal Regio Esercito. Velocità alla volata 650 m/s, gittata massima 11.600 metri. L’autocannone che ne derivò  aveva quale base lo SPA 9000 (SPA= Società Piemontese Automobili) .
Le batterie di auto cannoni da 102/35 erano costituite da materiale a tiro rapido, con alta velocità iniziale e munizionamento con granate atte a forare le corazze delle navi, batterie servite da personale addestratissimo. Facevano parte della Milmart.
Tornando al cannone da 90/53, la vicenda di questo potente pezzo d’artiglieria, sostanzialmente sottovalutato e incompreso da parte dei vertici militari, occhiuti e ottusi a fronte della minaccia dei mezzi corazzati pur in presenza, ben conosciuta, della mancanza di mezzi atti a contrastarli, benché Badoglio intendesse ufficialmente che il compito di annientarli spettasse all’aviazione (che- come già precisato- non solo non disponeva di velivoli e di munizionamento idonei al compito, ma non aveva neppure ipotizzato la creazione di una simile specialità), prende corpo dall’esigenza dell’Esercito di disporre di un cannone antiaereo capace di opporsi ai velivoli alle quote superiori ai 10.000 metri.
Il progetto fu avviato nell’aprile 1939. Il primo complesso vide la luce agli esordi del 1940. Le prove risultarono positive e quindi l’industria ebbe le disposizioni per passare alla produzione in serie.

Senza dilungarci, per dare al cannone da 90/53 il giusto riconoscimento, e nel contempo per addebitare allo Stato Maggiore l’incapacità di rendersi conto di quanto sarebbe stato utile, per non dire prezioso, disporne in grande quantità, sarà sufficiente dire che tecnici specializzati affermano quanto segue: Eccellente arma contraerea, il cannone da 90/53 aveva la capacità di mettere “fuori combattimento”.
Tutti i carri armati anglo-americani e sovietici. In forza di tali requisiti, furono messi allo studio diverse versioni di semoventi da impiegare nella lotta anticarro.
A questo proposito diviene interessante l’elencazione dei semoventi progettati e realizzati dalle industrie italiane, a conferma, se ve ne fosse ancora bisogno, di dimostrare quanto fosse possibile realizzare e impiegare e- al contrario – sottovalutato e dimenticato.
Cominciamo con il semovente da 75/18, su scafo M.40 e in seguito M.41, mezzo impiegato in combattimento in Africa Settentrionale e da ritenersi il più efficace mezzo corazzato messo in linea dal Regio Esercito sul fronte Nord-africano. Peso 31 tonn. Autonomia su strada 200/210 Km, fuori strada 10 ore; velocità su strada 30 Km/h; fuori strada 15 Km/h. Protezione frontale 30 mm. Mezzo dotato di radio.
Inoltre da non dimenticare:
Versione con cannone da 75/34 (cannone a canna lunga),
Versione con cannone da 100/25 su telaio M.15, un mezzo veramente temibile, prodotto però, solo in una ventina di esemplari.
Da non dimenticare, inoltre, i vantaggi forniti dai semoventi rispetto ai carri della serie M.
a) un armamento in grado di fermare qualsiasi carro alleato,
b) migliore corazzatura,
c) semplicità costruttiva,
d) economia di produzione,
e) I Servizi alleati lo definirono eccellente, addirittura formidabile rispetto ai semoventi schierati dati tedeschi e dagli Alleati.
Tra le altre numerose versioni, ma senza alcuna incidenza concreta sull’andamento delle operazioni e sulla capacità effettiva di contrastare con successo la superiorità quantitativa alleata in fatto di mezzi corazzati (in particolare dopo l’entrata in linea degli Sherman) si segnalano il semovente da 75/34 su scafo M.41 e protezione frontale di 70 mm; il semovente da 75/46 su scafo M.42, peso 15 tonn., con protezione frontale 70+30 mm (Largamente impiegato dai tedeschi dopo l’8 Settembre1943).
Il semovente da 75/18, primogenito della , fu il risultato di un compromesso imposto dalla totale inferiorità italiana in fatto di mezzi contro/carri e generato dalla bruciante disfatta subita tra il dicembre 1940 e i primi di febbraio 1941 in Africa Settentrionale. Nel medesimo tempo fu un’ammissione indiretta di incompetenza e di superficialità da parte dello Stato Maggiore del Regio Esercito colto impreparato di fronte al carro da fanteria britannico , forte della sua protezione frontale di circa otto centimetri di acciaio , su cui i proietti da 47 e anche di calibro superiore, rimbalzavano. Il cannone da 75/18, invece riusciva a sfondare la corazza e a mettere fuori combattimento quei mostri.
Vale comunque la pena di ricordare che il progetto del carro Matilda vide la luce nel 1936. La produzione in serie durò sino al 1943. Ne furono costruiti 2.897 esemplari. (classificazione ufficiale: Carro armato pesante da fanteria MK. Il Matilda A.12) era immune dagli attacchi dei controcarri dell’epoca., ma dagli inizi del 1941, con la comparsa in Nord Africa del semovente da 75/18, il Matilda non rappresentò più il flagello che si impose nella battaglia di Sidi El Barrani nel dicembre 1940 e nel seguito della prima offensiva britannica nel deserto, sino al 7 febbraio 1941.
Persino gli Sherman e i pesanti carri Grant di produzione americana, temevano il semovente italiano: nei documenti ufficiali britannici si legge: “preferibile attendere l’intervento delle forze aeree in funzione caccia/carri ad un ingaggio diretto con tali unità”.
In conclusione, amara e deludente per quanto attiene alla percezione tattica dell’alto comando italiano durante il secondo conflitto mondiale, la decisione di sospendere la produzione dei carri M a favore dei semoventi, fu tardiva. Non ci si rese conto per pigrizia , presunzione, palese incompetenza che il cannone da 75 era un’arma vincente rispetto al piccolo cannone da 47, che armava i carri M. Non dimenticando che i britannici disponevano ad esempio del carro M.3 Grant dotato di un cannone da 75 mm in casamatta oltre  a un’arma da 37 mm., in torretta girevole.
Tale mezzo corazzato era una vera fortezza: peso 27 tonnellate, i due cannoni citati, tre mitragliatrici e forte munizionamento. Protezione anteriore 50 mm, laterale 38 mm., torretta anteriore 55 mm., laterale 50 mm. Il cannone italiano da 75/18 perforava corazze di 50 mm alla distanza di 1000 metri. Il che spiega la cautela, dei comandi alleati. Un’altra occasione perduta.
Il semovente M.13/75 era impiegato come un vero e proprio carro armato.
Disponeva di una potenza di fuoco in grado di distruggere tutti i mezzi inglesi, Grant compreso.
E’ quest’ultimo il commento significativo di uno studio sui mezzi corazzati impiegati in Libia-Egitto-Tunisia tra il 1940 e il 1943.
Quindi, in conclusione, l’Italia disponeva di mezzi che se impiegati diversamente, sia a livello di produzione, sia di impiego tattico,non avevano alcunché da invidiare rispetto a quelli avversari. Non mancavano i mezzi e le potenzialità, mancarono i cervelli, gli strateghi, i tattici, il buon senso , la curiosità e prima ancora la volontà.

CONSIDERAZIONI

Nel testo che precede riteniamo vi siano numerose occasioni di riflessione in merito a quanto sarebbe stato possibile fare per attribuire alle Forze Armate italiane una consistenza e un armamento idoneo ad affrontare un conflitto in condizioni se non ottimali, almeno dignitose. La sottovalutazione degli aerosilurati e di determinati velivoli da caccia ebbe indubbiamente delle conseguenze drammatiche. Altra valutazione tragicamente negativa fu quella di non tenere conto del livello dei corazzati disponibili nello schieramento britannico e l’inadeguatezza, l’assoluta insufficienza dell’armamento di contrasto. Solo dopo il disastro subito da Graziani sotto l’urto della prima offensiva britannica nel deserto, dieci divisioni annientate, 130.000 prigionieri catturati dal nemico, decine di carri armati abbandonati e poi riutilizzati temporaneamente dai Britannici, centinaia e centinaia di cannoni perduti, unitamente a magazzini di rifornimenti, viveri,equipaggiamenti, munizioni, senza scordare gli autocarri che consentirono al nemico di proseguire l’avanzata conclusasi con l’annientamento finale dei resti della10^ armata nel combattimento di Beda Fom, solo dopo tutto questo ci si risolse a ricercare una soluzione valida che si manifestò con la realizzazione del semovente da 75/18, di cui si è detto.
Ma anche in questo caso non si comprese che quell’arma avrebbe dovuto diventare il , e questo perché non vi era la mentalità corretta per cogliere il senso autentico del tipo di guerra che il deserto imponeva e che il nemico conduceva.  Era una questione non solo di mentalità, ma di autentica scuola e di addestramento e di compenetrazione dei comandi ai vari livelli in merito a come si dovevano condurre le operazioni. Errore gigantesco quello di non saper osservare come agivano le due piccole Divisioni panzer che formavano l’Akrika Korps di Rommel, qualità dei mezzi a parte.
Il generale germanico aveva chiesto al comando italiano in Africa Settentrionale di potenziare l’armamento ad esempio delle Divisione Corazzata e portarla, almeno, al livello di potenza di fuoco pari alle due Divisioni germaniche, 15^ e21^; il comando italiano non solo ignorò il suggerimento, ma rispose praticamente al generale Rommel di non ficcare il naso nelle decisioni dell’alto comando del Regio Esercito e di utilizzare le divisioni italiane per quello che potevano fare così come erano strutturate,organizzate, e addestrate. Il che equivaleva ad ammetterne l’inferiorità non morale e della truppa, ma della mentalità e dell’armamento. Se il semovente da 75/18 si rivelò così micidiale come persino l’intelligence britannica fu costretta ad ammettere, ci si chiede come mai il comando supremo italiano non se ne rese conto e non concentrò su quell’arma la produzione, potenziando in tal modo le grandi unità schierate nel deserto. 
Superficialità, ottusità, approssimazione, pigrizia mentale, incompetenza, agirono da vettori degli Stati Maggiori. Il tutto si tradusse in lentezza, indolenza, infingardaggine, svogliatezza. Come ebbe a dire Durand de La Penne, l’affondatore della corazzata Valiant nella rada di Alessandria d’Egitto, non c’era determinazione,volontà di vincere.
Alla luce della ricerca sintetica e schematica condotta in queste pagine, risulta evidente che le opportunità erano chiare, inequivocabili, sarebbe stato indispensabile coglierle e metterle in pratica. E questo vale per i velivoli da caccia, per gli aerosiluranti, per il radiotelemetro o Radar come poi fu classificato, per i cannoni contro/carri. E ci limitiamo a queste citazioni, senza approfondire, ad esempio,il possibile impiego di cannoni di capacità ancora maggiori, come i citati 90/53 e 102/35. Il dramma fu certamente il tradimento compiuto da quei militari che l’articolo 16 del cosiddetto trattato di pace firmato dall’Italia nel febbraio 1947 ha voluto e continua a proteggere, infliggendo all’Italia non solo la disfatta militare, ma la gogna morale, etica e psicologica che tuttora pesa sulla Nazione, anche se si fa finta che non sia così.  In realtà mentiamo a noi stessi e viviamo in un equivoco.

Nel volume “Le artiglierie del Regio Esercito nella seconda guerra mondiale” (Filippo Cappellano, Albertelli Edizioni Speciali, Parma 1998, pag. 67 e seg.) si tratta abbastanza lungamente del cannone da 75/18, sia pure in un brodo di considerazioni e dispute sul calibro, la gittata, afferenti i requisiti meno appariscenti, ma sostanzialmente qualificanti di questa arma nell’ottica anti e contro/carro.
Extrapoliamo dal testo codesti riferimenti, utilizzandoli poi per il nostro ragionamento.

1)“L’obice da 75/18, si legge ( pagina 67 op.cit): è stato il primo materiale a deformazione da campagna di progettazione e costruzione interamente italiana”, sulla base del programma di ammodernamento (1929) e di nuove costruzioni d’artiglieria;
2) il progetto dell’Ansaldo risale al 1932, ma dopo lunghe prove venne abbandonato nel 1933 a favore di altro progetto che aveva gittata di 9 chilometri;
3) l’obice da 75/18 venne ufficialmente adottato nel 1934 e messo in produzione due anni dopo (pag. 68- 2^ col.);
4)All’epoca non si pensava minimamente all’ artiglieria semovente; il massimo era artiglieria someggiata e forse l’impiego di piccoli trattori. Il testo in esame afferma testualmente (pag. 69, 1^ col): “all’occorrenza il pezzo poteva essere anche rapidamente scomposto e trasportato a braccia per brevi tratti nell’attraversamento di terreni particolarmente difficili”. Frase che sottintende la progettazione, la costruzione, l’impiego di bocche da fuoco per una guerra in zone montane e con movimento delle truppe a piedi, come nel 1915-1918. Impostazione concettuale e dottrinaria (si fa per dire…) che rispecchiava pedissequamente le concezioni di Pietro Badoglio, capo di S.M. Generale). Nessun riferimento, neppure marginale, a guerra di movimento e al deserto nord africano, dove, pure, eravamo confinanti con possedimenti francesi e britannici. E’ sufficiente sfogliare le pagine di un annuario degli anni 930, edito a Parigi e nel regno Unito per vedere senza problemi quali fossero i mezzi pronti e operativi di Francia e Gran Bretagna e rendersi conto della necessità di disporre di mezzi anti-carro adeguati, ben prima di quanto faceva osservare il generale Caracciolo, Ispettore Superiore dei Servizi Tecnici nella sua lettera allo Stato Maggiore del Regio Esercito, Lettera del novembre 1940, quindi alla vigilia della prima offensiva britannica in Africa Settentrionale, conclusasi con annientamento della 10^ armata di Graziani e di Berti. Offensiva che vide l’esordio dei carri da 26 tonnellate Matilda, protetti da circa 8 centimetri di acciaio. Mezzi corazzati che letteralmente spianarono i centri di fuoco italiani a Sollum e a Bardia.
5 )La bocca da fuoco, in ogni caso, era oggetto di critiche per la limitata gittata, e le era preferita quella da 75/34 con gittata intorno ai 12 chilometri e caratteristiche analoghe.
6)in sintesi, si era in un guado di incertezze e di dubbi.
7) I primi pezzi vennero consegnati al Regio Esercito (vedi pag. 69, 2^ col del testo citato) solo alla fine del 1941. Dato che parte delle bocche da fuoco costruite erano state dirottate per l’installazione a bordo dei semoventi d’artiglieria da M.41. Nella disperata, affannosa rincorsa alla ricerca di un mezzo capace di opporsi efficacemente ai carri armati britannici.
8)Solo la carenza di cannoni controcarro e le discrete capacità perforanti del 75/32 evidenziate sul fronte orientale indussero il Ministero della Guerra a tornare sui suoi passi e ad ordinare grossi quantitativi di cannoni da 75 mm, mod 1937( nel 1943 risultavano commissionati all’Ansaldo e all’O.T.O ben 542 pezzi).
9) nel novembre 1940 (la data è importante!) l’Ispettorato Superiore dei Servizi tecnici, in una lettera allo Stato Maggiore del Regio Esercito, affermava: “( pag. 70, op.cit.) Il cannone da75/34 per la sua potenza, ha interessanti possibilità d’impiego come anticarro. Si presume che con un buon proietto perforante, esso potrà perforare corazze di 50/55 mm di spessore, mentre il cannone da 47/32 che attualmente costituisce il nostro più potente armamento anticarro, non perfora corazze superiori ai 35 mm e verrà, quindi, a trovarsi in crisi di fronte ai carri potentemente corazzati che pare siano in  corso di produzione in Inghilterra. Prego quindi codesto Stato Maggiore voler esaminare l’opportunità di procedere alla fabbricazione del 75/34 mod.37 su una scala più vasta di quella attualmente prevista”.
Lo Stato Maggiore rifiutò la proposta, con una lunga dissertazione tecnica(pag. 70/71 op-cit.).

In sostanza le prime durissime fasi del conflitto in Africa Settentrionale avevano spietatamente messo a nudo la debolezza del < Sistema Esercito> e la sua totale incapacità di rappresentare un elemento credibile a fronte della inferiorità numerica, , ma netta superiorità tattica e di impiego dei mezzi dei Britannici, che con vecchie ma efficienti autoblindo, artiglieria mobile e con gittata adeguata, e un numero limitato di carri armati ben addestrati e ben condotti, avevano fatto letteralmente a pezzi un esercito di oltre duecentomila uomini con fanterie che muovevano a piedi, sia pure con oltre 1.200 cannoni e oltre cento carri armati non inferiori (si parla degli M.13) a quelli del nemico, ma non organizzati in una unità motocorazzata integrata con artiglierie semoventi e con fanteria motorizzata. Ma carri armarti divisi alla spicciolata, quale appoggio statico alle divisioni appiedate e quindi privi di forza d’urto,di sfondamento e di movimento adeguato.
“Il più veloce è il più forte” ha sentenziato un autore- In effetti, come avevano osato affermare in Italia, anni prima, alcuni ufficiali superiori convinti assertori della necessità di disporre di mezzi corazzati efficienti e ben armati, la fanteria a piedi è fatalmente condannata a soccombere. Le disquisizioni concettuali dello Stato Maggiore (v. op.cit.pag, 71), lasciavano il tempo che trovavano, mentre il movimento di truppe (autotrasportate e l’azione in profondità di autoblindo e mezzi corazzati contro forze chiuse in postazioni fisse e prive di qualsivoglia elemento di movimento e di reazione mobile) è l’equivalente di una poderosa onda anomala: tutto travolge senza alcuna possibilità di opposizione.
(3 – Continua)